L’idea di “vagabondo” romantico, che vive per strada per libera scelta secondo uno stile di vita all’insegna dell’indipendnubenza, ormai è diventata una semplice “immagine folkloristica” (Gui, 1995), che ha riferimenti culturali che si rifanno al clochardismo (dal termine “clochard”, dal francese clocher che significa zoppicare) dei ponti parigini e ad esempi storici di altre epoche.
Chi è oggi una persona senza fissa dimora? L’opinione pubblica la definisce spesso col termine dispregiativo “barbone” (da birbone, cioè “delinquente” e “malfattore”), che rimanda, per assonanza, alla parola “barba”, richiamando alla mente immagini di scarsa pulizia, scarsa morale e devianza (Bonadonna, 2001). Molti la etichettano come una persona che non ha voglia o che è incapace di lavorare e di avere relazioni sociali, magari pericolosa, perché alcolizzata, tossica o malata mentale (Galliani, 2007). Questa immagine stereotipata pesa sul senza dimora, che finisce a identificarsene (Phelan et al., 1997), ormai sempre più allontanato da una società che lo evita solo perché in realtà “ha timore di potersi trovare un giorno nella stessa situazione deviante” (Valtolina, 2003).
Ma torniamo alla domanda: “chi è un senza fissa dimora?”. Nello Statuto della Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora troviamo questa definizione: “una persona in stato di povertà materiale ed immateriale portatrice di un disagio complesso, che non si esaurisce alla sola sfera dei bisogni primari, ma che investe l’intera sfera delle necessità della persona, specie sotto il profilo relazionale, emotivo ed affettivo” (Art. 2). In Italia il senza fissa dimora è generalmente maschio, di età compresa tra i 18 e i 47 anni, con un livello scolastico basso (anche se non sono esclusi diplomati e laureati), celibe o divorziato. Talora si riscontra la presenza di psicosi schizofreniche, di disordini della personalità, di disturbi dell’umore, di disturbi d’ansia e di comorbilità (psicosi o disturbi d’umore sono spesso associati a disturbi di personalità o ad abuso di sostanze).
Ma come si diventa senza fissa dimora? Scrivono Serra e Macrì (1995):
“Si finisce nella strada non per libera scelta, ma per emarginazione. Diventano gravi emarginati e poi senza dimora i più deboli socialmente; da un iniziale stato di indigenza si passa alla marginalità, come zona a rischio, e l’ultimo gradino è l’esclusione”.
Si osserva infatti nelle storie di vita dei soggetti senza dimora la presenza di una serie di eventi di “rottura” (separazioni familiari, sfratti, perdita del lavoro, disagio psichico, istituzionalizzazioni, fuga da casa da parte di un minore per furto/droga/amore, conflitti in famiglia, abbandoni scolastici, tossicodipendenza, carcere), che hanno condizionato l’innescarsi di meccanismi di impoverimento, isolamento ed emarginazione (Berzano, 1991). Nel definire il percorso di povertà ed esclusione sociale, Guidicini e Pieretti (1995) parlano addirittura di una graduale “decomposizione ed abbandono del sé”: ritiro dal mondo esterno, dalla propria famiglia, dagli amici.
La persona rimasta senza lavoro, senza casa, senza un supporto familiare ed amicale spesso si rivolge, non senza vergogna, ai servizi pubblici per chiedere aiuto, ma come sottolineano Laé, Lanzarini e Murard (1995) sebbene possa trovare un posto dove dormire, egli rimane “l’uomo senza chiave”, senza un proprio spazio, un alloggio che gli garantisca intimità (il restar soli, occuparsi di sé), domesticità (avere mobili, oggetti, biancheria), socialità (il vicinato).
Ma col tempo ci si abitua a tutto, sia alla strada che ai dormitori provvisori e spesso si innesca quello che viene definito “adattamento per rinuncia” (Guidicini, Pieretti, 1988) e più è il tempo trascorso in una situazione di marginalità estrema e più elevate sono le probabilità che venga superata la cosiddetta soglia di “non-ritorno” nel processo di deriva sociale (Lavanco et al., 2007). Talora si crea dipendenza con le strutture che forniscono aiuto materiale, e così si cronicizza la loro inattività e si determina solo la scomparsa delle residue motivazioni al lavoro e della volontà di autonomizzazione (Bergamaschi, 1995).
Da povertà quindi si aggiunge povertà: si crea un circolo vizioso che diminuisce progressivamente la capacità dei senza dimora di muoversi come cittadini (Zajczyk, 1991) e di mantenere una condizione di empowerment (potere di partecipare attivamente alla vita della comunità, in qualità di cittadino portatore di diritti inalienabili) (Amerio, Piccardo, 2000).
Come aiutare allora un senza fissa dimora? Non basta aiutarlo a soddisfare i propri bisogni primari, offrendo un letto e un pasto caldo, ma è necessario riattivare in lui un processo di empowerment, cioè fare in modo che egli riprenda in mano la propria vita e torni a prendere decisioni per sé e per il proprio futuro.
In termini psicologici, questo è possibile se viene favorito un locus of control interno (Rotter, 1966), un aumento dell’autostima, della self-efficacy (Bandura, 1986) e una prefigurazione positiva del futuro (Garfield, 1984). D’altra parte la società, piuttosto che escludere, dovrebbe creare contesti in cui soggetti, isolati e senza voce, riescano ad ottenere riconoscimento e possibilità di influenza sulle decisioni che riguardano la propria vita (Rappaport, 1990), accrescendo così quello che viene definito empowerment sociale. Questo significa rafforzare le reti sociali della persona in condizione di disagio (Granovetter, 1973), aumentare quindi il supporto sociale (House, 1981), costruire una comunità competente che offra risorse ed opportunità ad ogni suo cittadino (Iscoe, 1974) e promuovere una cultura dell’accoglienza (Amerio, 2000).
Sarà difficile realizzare tutto questo, ma, considerando il numero crescente di senza fissa dimora nel nostro Paese, non possiamo più chiudere gli occhi.